Addio al lavoro ( 1990 - 2015 )


#
azienda
2015
1990
diff.
1
Poste italiane [ 1 ]
143.580
237.000
- 39% *
2
FIAT [ 2 ]
84.887
237.000
- 64%
3
Ferrovie dello Stato [ 3 ]
65.516
186.668
- 65%
4
Coop
54.591
27.656
+ 97%
5
Telecom Italia Stet
52.557
125.958
- 58%
6
Enel
33.040
114.064
- 71%
7
Finmeccanica
29.671
58.450
- 49%
8
Edizione Benetton
23.102
2.541
+ 809% *
9
Esselunga
21.135
5.362
+ 294% *
10
Eni
16.720
127.197
- 87% *


#
azienda
1990
2015
diff.
1
FIAT [ 2 ]
237.000
84.887
- 64%
2
Eni
127.197
16.720
- 87% *
3
Telecom Italia Stet
125.958
52.557
- 58%
4
Enel
114.064
33.040
- 71%
5
Finmeccanica
58.450
29.671
- 49%
6
Ilva
50.410
14.129
- 72%
7
Ferruzzi - Montedison [ 4 ]
48.795
3.140
- 94% *
8
Olivetti [ 5 ]
31.576
0
- 100%
9
Alitalia
29.641
11.839
- 60%
10
Fincantieri
20.623
7.701
- 63% *


note

Ho riprodotto le classifiche elaborate dalla redazione de L'Espresso partendo dai dati raccolti dall'Area studi di Mediobanca e da comunicazioni societarie, e pubblicate nel sito [ 1 ]; ho corretto la denominazione della società per azioni “Poste” in “Poste italiane” e le percentuali contrassegnate dall'asterisco ( * ) siccome sbagliate;
le classifiche riguardano gli occupati nell'unità amministrativa 0039 dai rispettivi gruppi, non quelli all'estero.

[ 1 ] Poste italiane S.p.A. non è inclusa nella classifica del 1990, perché all'epoca non era ancóra società per azioni;
[ 2 ] il dato 2015 di FIAT riguarda le attività industriali controllate oggi dalla holding Exor;
[ 3 ] Ferrovie dello Stato SpA non è inclusa nella classifica del 1990, perché all'epoca non era ancóra società per azioni;
[ 4 ] il dato 2015 di Montedison è relativo a Edison;
[ 5 ] Olivetti oggi è un marchio del gruppo Telecom Italia. 

1

Nonostante gli errori di stesura delle tabelle nell'articolo “Addio al lavoro: l’industria non c’è più” su L'Espresso on-line [ 1 ], i numeri evidenziano il crollo dei dipendenti delle grandi aziende “italiane” nelle attività sul suolo “italiano”, con l'eccezione della grande distribuzione alimentare ( Coop, Esselunga ) e della famiglia Benetton con la holding Edizione;

ma in quest'ultimo caso, è bene recuperare uno stralcio dell'articolo :


[ nella top ten ] è entrata la famiglia Benetton, con la holding Edizione. Anche qui, però, c’entrano poco i maglioncini che avevano proiettato Luciano e i suoi fratelli al vertice dell’industria tessile e dell’abbigliamento mondiale. Il grosso dei dipendenti, oltre 40 mila su un totale di quasi 65 mila, il gruppo Edizione li conta infatti nel settore della ristorazione, dove i Benetton hanno debuttato acquistando dallo Stato l’Autogrill, per allargarsi in tutto il globo con 250 marchi diversi, dalla cucina asiatica dei ristoranti Pei Wei alle birrerie Gordon Biersch.
Poi seguono le concessioni autostradali e aeroportuali, anche quelle acquisite via privatizzazione, con 14.600 dipendenti.
Ultimo arriva l’abbigliamento, che occupa 9.164 persone.
Nel complesso, però, i lavoratori italiani sono poco più di uno su tre, sul totale dei 65 mila nel mondo. Mentre i Benetton si muovono sempre più da investitori finanziari, puntando su settori meno rischiosi, lontani dalle frontiere dell’industria.

L'Espresso


2

Cito un altro passaggio dell'articolo ( che vi consiglio di leggere per intero ) :



Più commessi che operai

Giuseppe Berta, uno dei più noti storici dell’industria nonché collaboratore de “l’Espresso”, ha pubblicato pochi giorni fa il saggio “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” (il Mulino). Alla domanda del titolo, nel libro Berta risponde in modo articolato e complesso. Tuttavia, ammette lui stesso in un passaggio, guardando «l’architettura storica del sistema delle imprese» la conclusione più immediata sarebbe dire che, semplicemente, il capitalismo italiano «non esiste più».

L'Espresso


In poche parole : la meravigliosa globalizzazione portatrice di opportunità ha depredato alcuni Paesi ( tra cui la cosiddetta “Italia” ) a favore di altri in crescita oppure capaci di difendere il proprio lavoro ( Cina, India, Europa Orientale, USA, Germania ... ) delle attività produttive dei beni materiali di cui siamo saturi nelle società occidentali completamente sviluppate, è vero, ma che tuttavia sono ancóra l'“asso di briscola” in un mondo in cui i 4/5 della popolazione sono, oggi, affamati di cose concrete;
voltura epocale, alla lunga inevitabile, che richiede un cambiamento di pensiero produttivo e sociale anziché fumare l'oppio tecnofideista che assieme alla solidarietà senza limiti è traino del pensiero sì-global e della generica speranza nella mitologica Ripresa ...

Addirittura un “sacerdote del tecnofideismo” come Chris Anderson, già direttore dell'organo ufficiale de facto della società liquida ed iper-tecnologizzata Wired, nel saggio “Makers – il ritorno dei produttori” [ 2 ] descrive i limiti economici ( nell'attuale assetto ) della virtualizzazione spinta, e auspica il ritorno alla produzione materiale domestica e connessa alla rete, sul modello del settore tessile inglese nell'Ottocento ( la cottage industry ) in cui ha investito soldi e impegno personali ( è fondatore e CEO della società 3D Robotics [ 3 ] e promotore di molte iniziative a supporto della produzione domestica ).
Agli “italiani” non resta che socializzare conoscenze e produzione, in assenza di competitori locali di stazza globale che possano fare ripartire il Capitalismo classico, e siccome sono sottoposti alle direttive sì-global di UE ed altri organi al soldo delle élite apolidi.

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