Lo scontro frontale fra Popolo italiano e Unione Europea è imminente e inevitabile
di Riccardo Paccosi
Premesso che Renzi – forte di un 40% ottenuto contro tutto il resto dello schieramento politico – non è affatto uscito di scena, la situazione in divenire consente di non pensare per un po' all'ex-premier e di concentrarsi, finalmente, sul fattore causale del ventennale processo di destrutturazione istituzionale riassunto nell'assioma ideologico “fare le riforme”. Rispetto a quest'ultimo, infatti, la riforma Renzi-Boschi è stata semplicemente l'ultima espressione in ordine di tempo e, sicuramente, non costituirà l'ultimo tentativo.
La necessità del “fare le riforme” è coincisa, per tutta la durata della Seconda Repubblica, con un lento ma progressivo processo atto a rendere i governi europei in sintonia con le necessità di competizione globale dei mercati e, quindi, con l'obiettivo di demolire le protezioni sociali che regolano il lavoro, la sanità e l'istruzione, nonché con l'intento di sottrarre agli organismi elettivi la possibilità di decidere le politiche di bilancio.
Questo processo, che è proprio della globalizzazione, per chi abita in Italia e negli altri paesi europei si traduce nel potere decisionale conferito – dalle Corti Costituzionali e dai Parlamenti degli Stati-nazione – agli organismi eurofederali non elettivi, vale a dire la Commissione Europea e la Banca Centrale Europea. Questo processo di azzeramento della sovranità popolare è stato compiuto all'insegna della legalità formale (sono state utilizzate, cioè, le legittime prerogative di Consulta e Parlamento) ma, al contempo, ha determinato un aperto contrasto con la legalità costituzionale (sono stati resi ineffettivi, cioè, almeno una trentina di Articoli della Carta).
Che a monte di tutto ci fosse il progetto di una dimensione giuridica sostanzialmente post-costituzionale – ovvero il conferire potere a organismi non elettivi – era chiaro anche nella riforma Renzi-Boschi e, specificamente, nella riforma dell'Articolo 55 ivi contenuto (laddove si parlava del Parlamento come attuatore degli indirizzi dell'Unione Europea, ovvero gli indirizzi della Commissione e della BCE, ovvero gli indirizzi di organismi non elettivi).
Oggi, il progetto di riduzione progressiva della sovranità popolare ha avuto una temporanea battuta d'arresto a causa del risultato referendario. I pezzi sulla scacchiera iniziano quindi a muoversi e tutto lascia indicare come in gioco, con quel referendum, non vi fossero affatto le alchimie della politica italiana, bensì l'assoggettamento di quest'ultima agli organismi eurofederali.
Alcuni esempi:
– il Presidente della Commissione Europea Jean Claude Juncker, ben lungi dal rispettare l'esercizio del suffragio universale, ha immediatamente bollato gli elettori italiani come “irresponsabili”;
– il Governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, ha chiarito alcuni giorni fa che il futuro dell'Italia dovrà comunque essere quello delle riforme in senso mercatista, “qualunque sia l'esito del referendum”;
– un consigliere economico del governo tedesco, Wolker Wienland, ha espresso l'ipotesi che l'Italia chieda aiuto al fondo europeo salva-stati e al Fondo Monetario Internazionale [ 1 ]; in pratica, si tratta dell'ipotesi di replicare la situazione della Grecia con tutto ciò che ne consegue.
Le comunicazioni terroristiche sulla tenuta finanziaria dell'Italia provenienti dalla UE, ovviamente, saranno utilizzate dal blocco politico che ha sostenuto il SI' per dire “ve l'avevamo detto” (come se la riforma referendaria implicasse il risanamento finanziario). Ma è evidente che per la parte di popolazione che ha sostenuto il NO – composta principalmente da poveri, ceto medio precarizzato e classe lavoratrice – si pone adesso il problema di uno scontro diretto e frontale contro l'Unione Europea. E' quest'ultima, infatti, che punterà a contrattaccare per distruggere il residuale potere popolare e di classe ancora rimasto nel sistema italiano. Demolire protezioni sociali, assistenza pubblica e diritti del lavoro fino al punto di lasciare, come già avvenuto in Grecia, la maggioranza della popolazione in condizioni di passività e rassegnazione.
Chi può opporsi a tutto questo?
La sinistra PD non ha alcuna intenzione di opporsi all'Unione Europea e, quindi, nulla induce a escludere che Bersani, D'Alema e compagnia siano disponibili fin da domani ad appoggiare un governo di macelleria sociale, come già fecero ai tempi di Monti.
L'area di Sinistra Italiana, invece, oltre a non possedere una posizione unitaria sull'Unione Europea, ha come unico obiettivo l'allearsi coi Democratici per condizionarli “da sinistra”; pertanto, quest'ultimo può forse dirsi il partito meno utile nello scenario odierno giacché privo d'una visione politica autonoma.
La Lega Nord e Fratelli d'Italia – che a parole affermano di contrapporsi alla UE, ovviamente da destra – in primo luogo esprimono da sempre una cultura dichiaratamente neoliberista; in secondo luogo, difficilmente potrebbero disancorarsi da Forza Italia, la quale rimane saldamente impiantata nel Partito Popolare Europeo e, quindi, nella prospettiva eurofederalista.
Il Movimento 5 Stelle è l'unica formazione dove, almeno all'interno della base elettorale, vi è una relativa coscienza dei problemi finora esposti. Il problema, però, è che la linea politica della dirigenza di quel partito sembra andare in una direzione diametralmente opposta: ovvero sta andando verso la premiership di Luigi Di Maio, quindi verso una linea di non contrapposizione all'Unione Europea, quindi verso una politica di continuazione dell'austerity fatta di tagli recessivi alla spesa pubblica (giustificati, ovviamente, tramite l'espressione ideologica “tagli agli sprechi”).
Ne consegue che la fuoriuscita da questo ginepraio, richiederà tempo e non potrà essere esente da traumi. Con questo non alludo a dinamiche da guerra civile ma a uno scontro che, almeno sul campo istituzionale e mediatico, sarà all'insegna della demonizzazione e della criminalizzazione. Andare allo scontro frontale con l'Unione Europea, indicare uomini intoccabili come Mario Draghi in quanto nemici della popolazione e della classe lavoratrice, infatti, significa contrapporsi a tutte le testate giornalistiche e a tutti i network del potere finanziario ed economico.
Nondimeno, si tratta di un passaggio ineludibile. Un passaggio minoritario sul piano politico, maggioritario sul piano sociale. Oggi, più che mai, l'autonomia del sociale e della classe lavoratrice – le cui istanze collettive e cooperanti, pienamente “di testa” e per nulla “di pancia”, sono incanalate nella contraddittoria fenomenologia denominata populismo – dev'essere interpretata e raccolta da quei pochissimi che sono in grado di farlo.
Da una parte, invito chi è d'accordo con quanto esposto a osservare e valutare con attenzione le forze che – quantunque aventi ancora dimensioni d'avanguardia – dinanzi all'attuale crisi sistemica hanno una prospettiva di alternativa piena, adeguata alla posta in gioco. Forze, quindi, come il FSI – Fronte Sovranista Italiano [ 2 , 3 ].
Dall'altra, occorre pensare fin da subito a una mobilitazione, in Italia e negli altri paesi europei, delle forze produttive: lavoratori dipendenti e autonomi, disoccupati, piccoli imprenditori. Un innesco di conflitto sociale contro la classe parassitaria del mondo bancario-finanziario e, finalmente, non più rivolta al burattino di turno bensì frontalmente contrapposta all'istituzione post-democratica che svolge dal 1992 il ruolo di burattinaio, ovvero l'Unione Europea.
Riccardo Paccosi
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{ prima pubblicazione dell'articolo su FB, 7 dicembre 2016 [ 4 ] }.
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