La Russia, scriveva Rainer Maria Rilke, «confina con Dio». «Vi è certo», proseguiva il poeta, «un Paese che si chiama Dio e chi lo regge si chiama anche Dio. I popoli semplici non sanno distinguere il loro Paese dal loro imperatore; sono entrambi grandi e clementi, terribili e grandi. [...] Si parla allo zar come si parla a Dio. [I russi] chiamano entrambi: piccolo padre». Questa vicinanza «è avvertita in mille occasioni». E così proseguiva:
“Qualunque cosa uno voglia portare dall'Europa, le cose d'Occidente sono pietre, appena oltrepassati i confini. A volte pietre preziose, ma buone soltanto per i ricchi, per le così dette «persone colte», mentre il pane di cui vive il popolo viene dall'altra parte, dall'altro Impero.*”
Rilke, austro-boemo per nascita, apolide per scelta, perennemente in cerca di una “vera” patria, conosceva molto bene la cultura e la lingua russa, tanto da meditare di trasferirvisi negli ultimi anni dell'Ottocento. Amava soprattutto la caratteristica principale di questo popolo, rimasta intatta dagli albori dello Stato russo a oggi: la sua «alterità» rispetto all'Occidente; il rifiuto di qualsiasi tentativo di omologazione con esso e soprattutto della condivisione di un destino comune; il senso di appartenenza a un mondo geograficamente e spiritualmente lontano dal resto; un mondo di confine, dove le cose “esterne” che vi entrano – appunto – perdono i loro connotati.
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* R. M. Rilke, Le storie del Buon Dio, a cura di G. Zampa, Rizzoli, Milano 1978
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